Parte 2 - A Giava con Honoré De Balzac

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Anche se dopo aver fatto ritorno al focolare domestico gli avvenimenti del viaggio, abbelliti dalla poesia del ricordo o dall’enfasi della narra­zione, che conferisce sempre un tono lirico, assu­mono tinte favolose e gli incidenti più volgari si ingigantiscono, si impregnano dello charme lega­to al racconto di colui che dice: “Io ero là, mi è capitata la tal cosa”, vi sono cose di cui è impos­sibile dubitare.
E così, dopo avervi parlato della Giavanese e del suo amore assassino, del bengali e del suo canto, delizioso come un bel libro, sono costretto dal ricordo a parlarvi della volcameria, un bel­l’albero il cui fiore è per l’odorato quello che la Giavanese è per la passione e il bengali è per l’orecchio.

Nell’anima di un uomo ispirato, senti­re i profumi emanati dalle divine corolle dei suoi fiori, provoca gli stessi effetti intellettuali. Anche le corone che queste donne dell’india mettono nei capelli sono intrecciate con ciuffi di volcame­ria e sicuramente esse ne conoscono la prodigio­sa potenza!...
Il profumo della volcameria entra in voi dol­cemente, in modo discreto, con la timidezza di quello delle viole. Poi penetra in bocca e diventa un gusto gradevole per il palato, che ricorda vagamente la dolcezza della fragola, la squisitezza piccante dell’ananas, la gioia vinosa del cantalupo, fuse delicatamente insieme nell’indeterminatezza del ricordo. E persistente e invade l’intellet­to come una creatura occulta, lo trapassa e lo agi­ta, come farebbe un gelsomino delle Azzorre o qualche lontana tuberosa.

Sono mille profumi insieme, delicati, fini, eleganti e soprattutto fre­schi, che inondano l’anima alla guisa dei sogni, la solleticano e risvegliano le idee più folli e ridenti. E come il bengali torna alla sua rosa, voi tornate al vostro fiore e lo odorate con lunghe aspirazio­ni, senza stancarvi... C’è qualcosa di femminile nell’aura del suo ciuffo. La direste una tenera amante accanto alla quale chiacchierate piacevol­mente la sera. Che molli odori!... Che creazione graziosa e inquietante!... Il suo tessuto, spesso e vellutato come quello della camelia, ha i dolci colori dell’albicocco. Il suo fiore si compone di quindici o venti piccole rose dai petali arrotonda­ti, disposti come in una di quelle belle rosacee che i nostri architetti hanno copiato dalla natura per ornare i templi. Le piccole rose, scure sui bordi e quasi bianche al centro, sono delicata­mente spiegazzate e formano un ciuffo bombato come quello dell’ortensia. Questo fiore e il suo delizioso profumo si concedono solo alle anime ebbre di musica e con il cuore pieno di gioia, che amano pregare.



Ascoltare il canto del bengali, respirare la volcameria, passare una mano leggera nella capiglia­tura di qualche giavanese, stando al riparo dal cielo di fuoco, nell’atmosfera umida che i Cinesi sanno creare stendendo delle lunghe stuoie di paglia di riso bagnate davanti alle finestre del vostro palazzo tappezzato di sete e di cachemire squillanti... Ah! Questa è una vita ideale, che non ha eguale in nessuna estasi, ma che corrompe l’anima. Per coloro che l’hanno gustata non c’è più né arte né musica né capolavori! Le madonne di Raffaello, gli accordi di Rossini, l’orchestra dei Bouffons, i prodotti della profumeria francese, i nostri libri, i poeti, le donne, laggiù perdono ogni importanza. Soltanto l’Asia e Dio sono riusciti a creare questi piaceri, per spiegare i quali manca­no le parole, così come mancano per descrivere gli abbracci profondi che sono l’inno misterioso di due cuori. L’Europa ne è stata incapace.

In quest’isola di miracoli tutto è armonia, tutto infiamma la vita, tutto la divora, tanto che si ripar­te distrutti. Anche l’unico senso che rimane da incantare viene soddisfatto in tutta l’ambizione del suo desiderio più sfrenato. In Asia, il gusto disde­gna tutti i frutti a favore di un altro meraviglioso alimento: il tè dai poteri narcotizzanti, che viene raccolto a due passi dalla Cina e che per me è una fonte di piacere da porre fra l’oppio e il caffè.
Il vino, il caffè, il tè e l’oppio sono quattro grandi eccitanti il cui effetto è di potenziare il cervello attraverso l’azione di stimolo data allo stomaco. Essi mettono fortemente in discussione la spiritualità della nostra anima.

Lasciamo il vino agli indigenti. La sua ebbrez­za grossolana crea disordine nell’organismo, sen­za ripagare il danno che fa con un grande piace­re. Tuttavia, entro i dovuti limiti, gli effetti causa­ti da questa forma di esaltazione liquida non mancano di attrattive e per questo motivo non bisogna parlar male del vino più di quanto non lo si faccia del proprio vicino di casa. Nella mia vita, ho conosciuto una volta le gioie di questa divinità volgare e, per quel che mi riguarda, io le sono riconoscente.
Permettetemi questa digressione. Essa vi ricor­derà forse una situazione della vostra vita, analo­ga a quella nella quale mi sono trovato io.
Una sera in cui cenavo da solo, senz’altra seduzione all'infuori di una bottiglia di vino dal bouquet incisivo e pieno di profumi vulcanici, giunto a maturazione su non so quale riva sasso­sa, dimenticai le regole della temperanza. Tutta­via, riuscii ad uscire di casa tenendomi ragione­volmente diritto anche se ero di umore cupo, poco loquace, e avevo l’impressione di un grande vuoto nelle cose umane e nei luoghi che mi cir­condavano.

Erano suonate le otto ed io andavo a prende­re posto nella balconata degli Italiani, quasi dubi­tando di esserci e non osando affermare di stare a Parigi, in mezzo a un’affascinante società, di cui non distinguevo ancora né le toelette né i volti. Che ricordo delizioso!... Non provavo né pena né gioia! La felicità mi ottundeva i pori, senza entrare dentro di me. La mia anima era grigia. Quello che ascoltai dell’ouverture della Gazza equivaleva ai suoni fantastici che dai cieli cadono nell’orecchio di una donna in stato di estasi. Le frasi musicali mi giungevano attraverso nuvole luminose, spogliate delle cose imperfette che gli uomini mettono nelle loro opere e piene dell’ele­mento divino che vi infonde l’artista. L’orchestra mi sembrava un ampio strumento che eseguisse un lavoro indefinibile, del quale non riuscivo ad afferrare né l’azione né il meccanismo. Vedevo, in modo molto confuso, i manici dei bassi, gli archetti in movimento, le curve d’oro dei trom­boni, i clarinetti, le luci, ma non vedevo gli uomi­ni. Solo una o due teste incipriate, immobili, e due facce gonfie e contratte in una smorfia. A tratti sonnecchiavo...

- Questo signore sa di vino... - disse a bassa voce una dama il cui cappello sfiorava la mia guancia o che, a mia insaputa, era sfiorato dalla mia guancia...
Riconosco di essere rimasto mortificato.
No, signora - risposi - io so di musica...
Uscii tenendomi perfettamente diritto, calmo e freddo come un uomo che se ne va perché non è abbastanza apprezzato e dà l’impressione, a chi lo critica, di aver costretto alla ritirata un genio di classe superiore. Per provare a questa dama che ero incapace di bere oltre misura e che il cat­tivo odore del mio alito doveva essere un inci­dente del tutto estraneo alle mie abitudini, pensai di recarmi nel palco della duchessa di..., la cui bella testa, singolarmente incorniciata da piume e da merletti, mi aveva ispirato il desiderio irresisti­bile di verificare se la sua incredibile acconciatu­ra fosse vera o dovuta all’ottica particolare di cui ero dotato quella sera.

Pensavo che quando fossi stato fra questa dama elegante e la sua amica così piena di sman­cerie ed esageratamente pudibonda, nessuno mi avrebbe sospettato di essere un po’ alticcio e tut­ti avrebbero detto che dovevo essere un uomo importante...
Ma mentre erravo negli interminabili corridoi del Théàtre-Italien senza riuscire a trovare la dan­nata porta del palco, la folla cominciò a uscire dopo lo spettacolo e mi inchiodò al muro...
Ricordo quella sera come una delle più poeti­che della mia vita. Non avevo mai visto tante piume, tanti merletti, tante donne graziose, tanti piccoli monocoli ovali, usati dai curiosi e dagli amanti per esaminare chi sta nei palchi. E se non mi trattenesse dall’affermarlo il rispetto che si deve a se stessi, oserei dire che mai avevo fatto uso di tanta energia né mostrato tanto carattere e persino testardaggine.

In confronto alla mia perseveranza nell’alzarmi in punta dei piedi e conservare un amabile sorriso, la tenacia di re Guglielmo d’Olanda nella questione belga è nulla.
Tuttavia, ho anche avuto qualche accesso di collera e ho pianto e questo mi pone al di sotto del re d’Olanda. Inoltre, il pensiero terribile di ciò che quella donna poteva pensare di me, se non mi fossi rifugiato fra la duchessa e la sua amica, mi tormentava, ma mi consolavo disprez­zando l’intero genere umano. Però avevo torto.
Quella sera ai Bouffons c’era un ottimo pubblico. Tutti furono pieni d’attenzione per me e si spo­starono per farmi passare.
Infine, una dama molto graziosa mi diede il braccio per uscire. Questa gentilezza fu dovuta alla grande considerazione che mi manifestò Ros­sini, il quale mi disse alcune parole lusinghiere che non ricordo, ma che dovevano essere alta­mente delicate e spirituali: la sua conversazione è all’altezza della sua musica.

Credo che quella donna fosse una duchessa, ma forse era una semplice maschera. La mia memoria è talmente confusa che è più verosimile che fosse una maschera anziché una duchessa. Tuttavia, essa aveva delle piume e dei merletti! Ancora piume! Ancora merletti!
In breve, mi ritrovai in vettura. Pioveva a dirotto, ma non ricordo di essere stato raggiunto da una sola goccia di pioggia. Per la prima volta in vita mia, provavo uno dei piaceri più vivi e più fantastici del mondo, un’estasi indescrivibile, la delizia che si prova ad attraversare Parigi alle undici di sera, trasportato rapidamente in mezzo ai lampioni, vedendo passare miriadi di negozi, di luci, di insegne, di visi, di gruppi, di donne sotto l’ombrello, di angoli di strada illuminati in modo fantastico, di piazze nere e osservando attraverso gli scrosci dell’acquazzone le mille cose percepite in modo diverso durante il giorno e delle quali si ha un’idea falsa. E ancora piume! Ancora merlet­ti, persino dentro alle botteghe dei pasticcieri!... Certo che il vino ha una grande forza!

Quanto al caffè, esso procura una febbre meravigliosa. Entra nel cervello come una mena­de. Sotto al suo attacco, l’immaginazione corre, si scompone, si mette a nudo, si contorce come una pitonessa e, in questo parossismo ispiratore, il poeta fruisce delle sue facoltà centuplicate. Come il vino produce l’ebbrezza del corpo, il caffè scatena quella del pensiero.
L’oppio assorbe tutte le forze dell’uomo, le riunisce in un punto, le afferra, le squadra, le cuba, le porta a non so quale potenza e regala all’individuo una creazione illusoria. Dà ad ogni senso la più grande somma di voluttà, lo eccita, lo affatica, lo usa e rappresenta, per questo, una morte calcolata.
Fra l’oppio così caro agli Orientali, soprattut­to ai Giavanesi, che lo comprano pagandolo die­ci volte il suo peso in oro, il vino e il caffè, il cui abuso è diffuso anche a Parigi, la natura ha mes­so il tè.

Il tè preso a grandi dosi e bevuto in paesi come Giava, dove la foglia fresca ha conservato i suoi preziosi profumi, trasfonde nell’organismo tutti i tesori della malinconia, i sogni, i progetti notturni, gli stessi concetti ispirati dal caffè e i piaceri prodotti dall’oppio. Le fantasie rubate al cervello prendono forma in un’atmosfera grigia e vaporosa. Le idee sono dolci e non si è privati di alcuno dei benefici della vivacità corporale. Lo stato non è quello del sonno, ma una sonnolenza incerta, che somiglia alla fantasticheria del matti­no. A Giava, il tè si trova già pronto in tutte le botteghe. Si entra per berne uno, due o tre den­tro a ciotole di porcellana e non si è tenuti ad alcun tipo di ricompensa. Si fa come in Francia quando si accende la pipa ai lumi installati fuori delle rivendite di tabacchi.

Tutti questi divertimenti riuniti - le Giavanesi, i fiori, gli uccelli, i profumi, la luce, l’aria, la poe­sia che infonde vita ai sensi - mi hanno fatto esclamare, al mio ritorno dall’india: - Felice chi va a morire a Giava!...
In effetti, non si tratta tanto della durata quanto della qualità della vita e del numero di sensazioni provate. E in questo paese stupendo, sempreverde e sempre vario, punto d’incontro di tutte le nazioni ed eterno bazar, il piacere si mol­tiplica da solo, regna la più grande libertà, c’è posto per tutte le superstizioni e le emozioni, le voluttà e i pericoli sono così numerosi da dare vibrazioni continue. L’Oriente ha pochi scrittori perché si vive molto dentro di sé e si riversa poco sugli altri. Là dove tutto è sentimento, a che ser­ve la riflessione?

Ero da poco tempo a Giava quando intesi par­lare di una meraviglia del paese, l’upas, il solo albero di questa specie esistente sulla terra, i cui frutti terribili giocano un ruolo così grande nelle usanze giavanesi. Secondo la tradizione dell’isola, Pupas è un albero piantato al centro di un vulca­no spento dal quale, per un capriccio della natu­ra, trae sostanze spaventosamente deleterie, le distilla incessantemente e ne esala i miasmi. La Tofana, la Brinvilliers, la chimica e il genio umano in tutta la sua malvagità, laggiù sono superati dalla sorte, da un albero, da una sola delle sue foglie. Basta piantare un pugnale nella scorza e provocare un’incisione profonda e rapi­da perché la sua lama sia cosparsa di una sostan­za con le proprietà dell’acido idrocianico. Appe­na l’acciaio avvelenato scalfisce la pelle di un uomo, questi cade senza convulsioni né segni di sofferenza. Oltre a conferire al ferro una potenza mortale con la linfa, l’albero esala miasmi così intensi e micidiali da uccidere un uomo, se egli vi rimane sotto più del tempo necessario a infilzare il pugnale nel fusto. L’aria, passando sull’albero, diventa mortale fino a una certa distanza, perciò, per compiere questa operazione, bisogna avvici­narsi sopravvento. E se il vento cambia nel breve lasso di tempo necessario a intingere la punta del pugnale, il Giavanese spira immediatamente.

Gli animali, gli uccelli e, in generale, tutti gli esseri viventi conoscono questa proprietà tremenda e rispettano il trono della morte. Alcuni germogli, nati dall’albero principale e cresciuti tutt’intorno, formano un terribile recinto nel quale i passaggi si fanno di giorno in giorno più rari. Questo sinistro vegetale che si erge solitario, è l’immagine simboli­ca degli antichi re dell’Asia, dallo sguardo mortale.
I naturalisti si limitano a delle congetture su questo albero sconosciuto e unico nel suo genere, che non tollera vicino a sé né artisti né fannullo­ni e che, per questo motivo, si è sottratto alla nostra litografia onnipotente. Ma gli scienziati, non accettando questo oltraggio a cui non sono abituati, lo hanno coraggiosamente collocato nel­la categoria degli stricno, fidandosi dei sentito dire dei Giavanesi.
Per procurarsi questo veleno sottile, gli indige­ni usano un metodo filantropico. I condannati a morte dal capotribù ottengono la grazia, se rie­scono a riportare un pugnale avvelenato. Su dieci criminali, tre o quattro riescono a sfuggire alle insidie dell’upas.

Naturalmente ero curioso di vedere quest’al­bero misterioso. Sono avanzato sopravvento, fin dove la prudenza me lo consentiva. Munito di cannocchiale, ho trepidato a lungo sui confini di questo regno del terrore, dove avrebbero dovuto essere deportati Danton o Robespierre. Non ri­cordo di non aver neppure immaginato uno spet­tacolo così spaventosamente maestoso né nei car­nai della Bibbia né nelle scene più fantastiche del­la nostra letteratura cadaverica.
Immaginate una pianura coperta di ossa im­biancate, la maggior parte delle quali ammontic­chiate in cerchio intorno all’upas, a testimonianza del suo potere. Gli sfortunati sono stati attaccati quando si credevano in salvo e i loro scheletri, colpiti dal sole delle Indie, ne riverberavano ca­pricciosamente i raggi. I giochi di luce attraverso le spoglie producevano effetti atroci.

C’erano del­le teste dagli occhi fiammeggianti, dei crani che sembravano maledire il cielo, dei denti che mordevano ancora... I cadaveri, finiti in questo circo senza spettatori ma non senza atleti, sono i soli che non siano finiti in pasto ai vermi... Il silenzio, interrotto solo dallo scricchiolio delle ossa, è ter­ribile. Cercate un’altra scena simile nel mondo!...
I Giavanesi sono tanto fieri del loro upas quanto gli abitanti di Bourges lo sono della loro cattedrale. Così, per fare onore agli indigeni che mi hanno condotto fino a questo albero monu­mentale, avrò cura di rifiutare le informazioni incomplete circolate fino ad ora sull’upas.
Malgrado le asserzioni contrarie di molti viag­giatori, è un fatto certo che il grande upas di Giava non ha rivali. È un sovrano geloso, difficile da detronizzare ed è il solo individuo della sua specie giunto a quell’altezza. Credo che arrivi a novanta o cento piedi di elevazione e i suoi germogli asso­migliano ai nostri alberi cedui di cinque anni.

I Giavanesi o gli Europei che vogliono disso­dare una parte di foresta hanno paura di incon­trare un upas anche se, fino ad oggi, i vegetali di questa famiglia che sono stati scoperti, ammesso che siano degli stricnos, erano inoffensivi e il veleno, per essere estratto, ha avuto bisogno di essere sottoposto a preparazioni chimiche. Un criss, o pugnale malese, immerso in un veleno diverso da quello del grande upas, dà una morte più lenta e preceduta da convulsioni. Poi, quando il criss è stato usato, se il proprietario vuole resti­tuirgli tutto il suo potere velenoso, deve cospar­gerlo di succo di limone. Desidero che altri viag­giatori, dall’immaginazione meno pigra della mia, verifichino questi fatti, di grande importanza sto­rica per la scienza. Da uomo che non è per nulla tentato dalla reputazione scientifica e che non dà importanza né ai propri ricordi chimerici né alle dissertazioni coscienziose, posso solo garantirne l’autenticità oculare.

La difficoltà di procurarsi questo terribile veleno è provata da un altro fatto. I Malesi dan­no un valore enorme al loro criss, che è prezioso quanto può esserlo una buona giumenta in Ara­bia, e rifiutano di venderlo. Questo pugnale avve­lenato è tutta la fortuna di un Giavanese che, così armato, non si preoccupa di una tigre più di quanto noi ci preoccupiamo di un gatto.
Al mio ritorno dalla zona dove cresce l’upas, vedendo la facilità con la quale i Giavanesi si sbarazzano delle tigri, ho perduto molti dei miei pregiudizi su di esse. La tigre è il più vigliacco degli animali. Anche se è in preda alla fame, raramente attacca l’uomo e, se manca la preda al primo balzo, non ripete mai l’attacco e fugge come un maldestro lestofante. I condannati a morte che rifiutano l’occasione favorevole del- l’upas, di solito vengono fatti combattere con una tigre affamata, tenuta a lungo dentro a una gabbia. Se il criminale riesce a sopraffarla con il suo pugnale dalla lama di piombo, viene grazia­to. Se il colpevole appartiene a una famiglia ric­ca e potente, il ministro della giustizia sostituisce la lama di piombo con una di acciaio, anche se è fortemente incostituzionale. Ma i privilegi del­l’aristocrazia sono uguali dappertutto, anche presso i selvaggi.

Questo combattimento è di una antichità im­memorabile ed è l’atto di una giustizia crudele e buffonesca. Ma offre uno spettacolo di cui gli in­digeni sono entusiasti e dobbiamo riconoscere che questa esecuzione è molto più divertente del monotono dramma che si compie da noi in place de Grève. Almeno qui il paziente ha una chance e, se vince, la società non perde un uomo corag­gioso.
Gli spettatori si dispongono in cerchio, pre­sentando una cintura di picche aH’animale. Il condannato, sia che abbia un buono o un cattivo pugnale, è obbligato ad andare a stuzzicare la tigre, per costringerla a uscire dalla sua gabbia e per eccitarla a combattere. Se ha il pugnale di fer­ro, il Giavanese è sempre vincitore, se ha quello di piombo, la lotta rimane a lungo indecisa.

Il Giavanese è coraggioso, ospitale, generoso e buono, anche se l’oppio lo rende a volte furioso. Spesso, nella sua ebbrezza, fa voto di mettere a morte tutti quelli che incontra e questo voto è conosciuto sotto il nome di amoc. Questa di­sposizione alla frenesia è ben conosciuta e, quan­do un Giavanese corre per le strade pensando a un amoc, gli abitanti escono di casa senza troppa paura e vanno incontro al folle, tenendo davanti a sé una grande forca con la quale gli imprigiona­no il collo. Altri gettano una corda con un nodo scorsoio e lo strangolano senza tante cerimonie. Certo, in Europa, questa usanza presenterebbe dei rischi. Molte persone farebbero degli amoc senza rendersene conto. Ma poiché la nostra civiltà non è passata di là, le forche e i nodi scor­soi non si presterebbero ad uccidere neanche un vecchio zio ricco. Questo fatto certo depone, ne sono spiacente, contro l’eleganza dei nostri costu­mi e contro lo spirito della nostra società, che è diventata un deposito di bene e di male.

Quando ritornai dall’escursione alPinterno dell’isola per vedere l’upas, notai dei fiori straor­dinari, che non somigliavano ad alcuno di quelli che conoscevo. Non sapendo come si sistema un erbario, li misi nella tasca del gilet. Da questo è risultata una gran perdita per i collezionisti e una ancora più grande per me, che avevo la possibi­lità di vedere il mio nome, allungato di uno ia, in tutti i dizionari degli studiosi o nelle classificazio­ni floreali. Tuttavia, avevo visto questa formazio­ne vegetale risaltare in mezzo agli alberi in tutto il suo splendore ed essa rimase impressa nei miei ricordi come una foglia antidiluviana nel gesso. Ma un viaggiatore non può trasmettere al suo uditorio le impressioni che ha ricevuto in tutte le condizioni di bellezza di cui la natura le ha fug­gevolmente investite. Tutti noi abbiamo ricordi preziosi della vita trascorsa, ma al loro significato interiore non corrisponde alcuna eloquenza uma­na e per esprimerli non vi sono parole né poesie. Essi giacciono, inservibili, dentro di noi.

Quando due esseri felici si dicono una parola dolce, dal cielo scende un effetto luminoso origi­nato dal sole, che penetra nelle macchie di verde e sembra riversare sul paesaggio le magie di un sentimento troppo vasto per dei fragili cuori. E il momento in cui la natura brilla non solo per il suo charme reale ma per effetto delle illusioni dell’uomo. La configurazione di un vecchio salice e le sue foglie deliziose diventano un’immagine fantastica e incancellabile per gli occhi estasiati e felici di un innamorato, la cui anima attribuisce loro la propria esuberanza e li avvolge dell’ine­splicabile passione che spinge, negli instanti in cui la gioia moltiplica le nostre forze, ad afferrare e a rompere un oggetto.


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